Don Franco scrive al vescovo di Pavia, Monsignor Giovanni Giudici, che lascia il suo incarico per raggiunti limiti di età
Ecc.za Rev.ma Mons. Giovanni Giudici,
abbiamo l’occasione questa sera di salutarla, mentre ripone il suo pastorale, in una Cappella consacrata al Sacro Cuore, alla vigilia della chiusura dell’anno liturgico e all’apertura dell’Anno Santo della Misericordia.
Per esprimere il modo in cui Lei ha saputo essere il nostro vescovo, mi affido all’autorevolezza del card. Martini, che, nel tessere le caratteristiche del “vescovo ideale”, sollecita a «tirarlo giù dalla nicchia e vederlo a contatto con la gente […], con un’immagine meno vaporosa e ieratica, più viva e senza false pretese». Il card. Martini con queste parole intende, dunque, riorientare la funzione del vescovo, spostando l’asse della sua autorità. L’etimologia del termine “vescovo” (da epì-skopèin: sorvegliante, guardiano, guida, pastore) rimanda ad un’ immagine tradizionale di potere, di cui Martini la svuota per rimarcarne quella di guida in costante rapporto con la Parola e con la sua azione santificatrice. Poiché, infatti, l’auctoritas è la caratteristica di colui che fa crescere la vita, la figura pastorale del vescovo dev’essere quella di un «servitore della parola di Dio. Egli deve avere il Vangelo dentro sé stesso e quindi essere un Vangelo vivente». E Martini stesso, che ne è stato come l’icona, sottolinea in modo icastico: «Se si vuole un vescovo profeta, bisogna dargli molto tempo per pregare», cosicché il suo divenga un potere illuminante e liberante che partecipa ai gesti di Gesù di liberazione dal male e trasmette la forza del lievito evangelico.
Passando, poi, in rassegna tutti i contatti del vescovo: con i non credenti, i poveri, i malati, i carcerati, gli stranieri; l’ampia rosa delle relazioni ecclesiali: i fedeli, i collaboratori, i preti e diaconi, i teologi, il seminario, i religiosi, il mondo missionario; le istituzioni; gli ebrei e il mondo dei media, egli annota le doti necessarie oggi ad un vescovo: l’integrità, la lealtà, la pazienza e la misericordia. Il vescovo dev’essere «un uomo umile, che vince le durezze con la propria dolcezza, che sa essere discreto, che sa ridere di sé e delle proprie fragilità, che sa riconoscere i propri errori senza troppe autogiustificazioni. Dunque anzitutto un uomo vero».
Mi permetta di conversare non da Gerusalemme ma da San Mauro, per dirLe che la lealtà del suo discernimento per la crescita umana e spirituale del Suo clero, la capacità di valorizzazione dei laici, il dialogo con le Istituzioni, la fiducia nel volontariato, la carità continua e la dedizione amorevole alle tante realtà della sua chiesa ci ha fatto capire perché Martini la amava tanto. E noi siamo grati per il dono di averla tra i Vescovi di Pavia, in un periodo difficile in cui la coerenza dei suoi gesti di condivisione ha saputo rafforzare la fede della sua comunità. Penso al sostegno dato alla Scuola di Cittadinanza e Partecipazione o all’idea del Compralavoro realizzata un anno fa con il Laboratorio di Nazareth e la Rete di Imprese “Made in Pavia” o ai progetti di carità con il carcere, tutti frutti della fiducia da lei riposta nei suoi collaboratori.
Se, poi, permetto ai miei ricordi personali di affiorare, sento di doverle esprimere profonda gratitudine per l’apertura che ha sempre dimostrato nei miei confronti, portando a termine il processo diocesano sulle virtù di don Enzo e il consolidamento giuridico della Casa del Giovane, favorendo la sistemazione definitiva della Mensa del Fratello, l’inserimento al settimanale il Ticino e la frequenza alla Scuola di Dottrina sociale, mostrandosi presente a tutte le iniziative, quali Amico lavoro e Compralavoro, anche attraverso preziosi consigli e aiuti concreti per trovare un’occupazione a chi ne aveva bisogno. Non vorrei dimenticare il grande dono di essere diventato parroco, a seguito dell’esperienza di responsabilità alla Casa del Giovane, da dove non sarei mai andato via senza il suo aiuto e la sua mano paterna, che mi ha guidato lungo la strada in cui apprendo ogni giorno ad essere prete per tutti; grazie anche per l’amicizia dimostrata in curia e per tutte le attività di vangelo sociale in cui mi ha coinvolto e che, con il suo sostegno, sono diventate patrimonio ecclesiale di solidarietà. So che Lei non ama sentir parlare di sé, e per questo sarebbe stato più prudente promuovere un prete più umile e di poche parole. Con Lei, tuttavia, è stato bello mettere a servizio dell’intera diocesi anche i nostri difetti, in un cammino di fede entusiasta che, sostenuto dalla preghiera della comunità, ha dato frutto in opere per i più poveri e i più deboli, di cui ci resterà un segno tangibile nel Piccolo Chiostro, una volta restituito alla sua antica bellezza, quale luogo di preghiera e di carità a testimonianza di un Amore che accoglie e unisce nel grande abbraccio di Dio piegato verso il cuore della sua gente, a partire dai più poveri, come lei ci ha insegnato.
Portiamo dentro di noi e sempre condivideremo con Lei la Grazia dell’affetto che ci ha fatto crescere e amare la Chiesa.
Don Franco Tassone
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