Il vescovo di Pavia, Giovanni Giudici, giunto al compimento dei 75 anni, scrive alla comunità cristiana. È stato ausiliare a Milano per 13 anni. Molti i temi toccati con garbata sincerità. Una riflessione ad alta voce a proposito di ciò che gli appare urgente nella Chiesa italiana.
Guardo la Chiesa e la vedo come popolo di Dio in cammino; ne fanno parte tutti: laiche e laici, religiosi e religiose, preti e vescovi. In questo popolo ho percorso la mia strada di giovane laico, di prete, di vescovo con tante occasioni di incontro e di servizio. Conosco per esperienza la vita della piccola diocesi e della grande diocesi in cui sono nato e cresciuto. Ho sperimentato le dinamiche dei convegni nazionali, delle Assemblee della CEI e delle sue commissioni. Ho esercitato il ministero di parroco in una parrocchia di città, ho visitato parrocchie di paese, ho incontrato associazioni e gruppi.
Oggi rivedo anche i passi da me compiuti con l’intento di aiutare la comunità cristiana a diventare sempre più fedele al Vangelo nel nostro tempo e nella nostra terra: ho portato avanti proposte che si sono rivelate, nel corso degli anni, talvolta utili e talvolta meno adatte. Ora, cercando di cogliere con sguardo complessivo il passato con le decisioni prese e il presente con le sue sfide, avverto il desiderio di riflettere ad alta voce a proposito di ciò che mi appare urgente perché «la Parola corra», secondo la bella espressione dell’apostolo Paolo.
Vocazioni, fede e liturgia
Che cosa potrei dunque dire della comunità cristiana alla quale mi sento tanto legato? Ho modo oggi di esprimere sentimenti di speranza e di fiducia che credo siano presenti nelle persone e nelle comunità per la forza dello Spirito, sempre operante nella Chiesa del Signore.
Per incominciare a mettere in rilievo alcuni aspetti più significativi che ho visto e ancora oggi vedo nella Chiesa in Italia, faccio riferimento alla dimensione della misericordia che papa Francesco ci richiama. In Cristo misericordia fatta carne, siamo chiamati ad essere Chiesa della misericordia.
È sempre necessario imparare a fissare lo sguardo sul volto di Gesù, e ciò è possibile solo se è in atto una seria educazione alla vita spirituale per ogni credente. A questo proposito, c’è un cammino da compiere per ogni componente della comunità e per il modo con cui è inteso il ministero presbiterale.
Dobbiamo fare i conti con la crisi delle vocazioni presbiterali e religiose: è una situazione che non sembra destinata a risolversi in breve tempo. In questo però si possono leggere anche aspetti positivi: sono sorte vocazioni laicali, disponibilità, competenze sul piano della catechesi e della carità, vocazioni per le quali occorre realizzare occasioni più facilmente accostabili e più essenziali per l’approfondimento personale della fede. È proprio da pensare come irrecuperabile l’esperienza di momenti di silenzio e di preghiera per singoli, gruppi e comunità? Senza la disponibilità di consistenti spazi di tempo, senza adeguata comprensione della vita secondo lo Spirito, non vi può essere una maturazione significativa nella vita cristiana.
Sono persuaso che una certa superficialità nella vita spirituale consente – e forse favorisce – l’enfasi data alla dimensione devozionale dell’esperienza di fede. Quante carovane di pullman e di macchine per i luoghi dove viene riferito che fratelli e sorelle hanno ricevuto rivelazioni private! Mi sono domandato e ancora mi domando se non è possibile porre lo stesso zelo nel proporre iniziative che favoriscano l’ascolto della Parola e la conoscenza dei movimenti dello Spirito nel cuore dei credenti. Si onorerebbero forse meno le figure dei santi e la benedetta opera di Maria nella nostra comunità?
Il rinnovamento liturgico, benedizione straordinaria donataci dal concilio Vaticano II, ha trovato anche nella Chiesa in Italia un’attenzione specifica, e agli inizi addirittura entusiasta. La spinta a sostenere e a sviluppare una liturgia che, in fedeltà al Concilio, sappia parlare alle persone, purtroppo, non è più così evidente tra noi. Eppure è lì, nella preghiera liturgica, che ritroviamo la consapevolezza di essere con Cristo alla presenza di Dio Creatore e Padre. E così, con gioia, è possibile al cristiano l’offerta di sé perché la vita divenga liturgia. «Vi esorto fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» (Rm 12,1).
Nuovi itinerari
Per la comunità cristiana la presenza del prete è indispensabile, ma le circostanze attuali ci hanno spinto ad una ristrutturazione degli ambiti affidati alla cura di uno o più presbiteri. Occorre sottolineare la nostra responsabilità per favorire e accompagnare la maturazione delle vocazioni presbiterali. Mi domando se riusciamo effettivamente a valorizzare, nel cammino verso la vocazione sacerdotale, la varietà di esperienze che i giovani incontrano oggi nella loro adolescenza e giovinezza perché non sarebbero formative comunità di seminario che privilegino stili di rigidità e attitudini di separatezza dal popolo di Dio. Come vivono le comunità parrocchiali a cui questi giovani saranno inviati da presbiteri? Dobbiamo sempre cercare itinerari che aiutino una disponibilità alla collaborazione e una capacità di operare non chiusi nel piccolo gruppo dei più vicini ma aperti alle domande e ai bisogni di tutti.
Nelle espressioni concrete della vita della comunità non appare sempre con chiarezza la comunione tra le diverse vocazioni. Superata nella dottrina, l’idea dei due “ordini” di appartenenza alla Chiesa continua nella pratica. La vita delle parrocchie è spesso affidata al presbitero non solo per quell’indispensabile ministero che lo qualifica ma anche in molti aspetti della attività pastorale: catechesi, gestione amministrativa, carità.
La Chiesa italiana può contare sulla generosità di tanti nell’annuncio della fede. Catechiste e catechisti sono spesso nella parrocchia un gruppo di credenti preparati, competenti nel loro ministero. Allo stesso modo, quanti educatori svolgono la loro opera con grande abnegazione e con il dono del proprio tempo e delle proprie energie! Quanti operano nel servizio di carità nelle più varie forme in cui l’amore per il prossimo può essere esercitato! Quanti volontari sono impegnati nella cura per i sofferenti, i più deboli e poveri con una operosità in cui si manifesta intraprendenza e collaborazione.
Questa figura di comunità fedele al Signore e attiva nella carità sollecita una presenza dei laici che non sia solo esecutiva ma anche partecipativa e decisionale nei vari ambiti in cui si svolge la vita ecclesiale. A questo scopo, occorre non solo teoricamente, bensì nella prassi ecclesiale, affermare l’uguale dignità di tutti, attuando nella comunità una relazione tra le persone che consenta di scoprire come, nel riconoscimento dell’altro, io comprendo me stesso. Si tratta, dunque, di discernere e di promuovere la ricchezza di ciascuno e delle diverse vocazioni a vantaggio dell’intera comunità.
Chiesa del servizio
In ogni età della sua vita, il credente è chiamato ad accogliere la pasqua di Gesù. La vita di fede compresa nelle dimensioni della dedizione, della piccolezza, del servizio al fratello, dell’attesa fiduciosa del Regno che viene, mal si concilierebbe con la nostalgia per una Chiesa più forte e capace di farsi valere. È ricorrente in noi la spinta ad essere una comunità che si organizza per contare.
Il ruolo minoritario in cui ci si è venuti a trovare nella società, ci consente una dedizione che aiuta ad assumere gli atteggiamenti di Cristo povero e servo.
Riconoscendo la possibile inclinazione per la contrapposizione di fronte a problemi nuovi e a situazioni complesse, occorre coltivare la capacità di stare nei problemi condividendo la ricerca e il dialogo.
Le generazioni che ci hanno preceduto hanno seminato a piene mani parole cristiane; esse sono ancora usate. Vi sono, nel nostro paese, sensibilità che noi stessi abbiamo ricevuto e che hanno le loro origini nella tradizione che scaturisce dal Vangelo, vissuto e divenuto ordito della vita quotidiana di un popolo. A volte, la sensibilità al vero e al giusto, i gesti di generosità che da quelle scelte scaturiscono, non sono valorizzati se vengono vissuti da chi non appartiene alla comunità cristiana. È come se avessimo un senso del monopolio per i contenuti evangelici. Essi sono, invece, le attitudini dell’uomo in qualunque modo toccato dalla grazia del Salvatore.
Mi piace pensare ad una comunità cattolica capace di cogliere e condividere la bontà dei valori vissuti da ognuno, a qualunque religione o gruppo appartenga: il rispetto della persona umana, l’uguale dignità nella diversità, la solidarietà e la capacità di compartecipare beni, la cura del creato. Ed ancora: una comunità che riconosca il primato della coscienza – chiamata certamente a confrontarsi con la parola di Dio –, che si impegni nella ricerca della verità come esigenza di tutti, che educhi alla pace come condizione ideale per ogni convivenza buona.
Una duplice esperienza
Una parola vorrei dire ancora riguardo a problemi che, in un certo senso, oltrepassano le conoscenze e le competenze di un singolo vescovo, oltretutto alla vigilia del suo ritiro.
Mi spinge a parlare il fatto, singolare e per me benedetto, di essere stato vicario generale in una diocesi di cinque milioni di abitanti e vescovo residenziale in una diocesi che non arriva ai duecentomila. Ho potuto misurare vantaggi e limiti.
Nella piccola diocesi ho trovato possibilità più immediate di incontro, confronto, dialogo con tutti: con i malati nelle loro case o negli istituti di cura, con imprenditori, docenti universitari, autorità civili, organizzazioni economiche e sociali di ogni appartenenza.
La piccola dimensione tuttavia, rende difficile offrire risposte adeguate alle diverse esigenze e valorizzare le idoneità dei singoli. Nei piccoli numeri risulta impegnativa e difficile l’acquisizione di competenze specifiche sempre più necessarie: penso all’adeguata preparazione del personale per le curie, all’avviamento di alcuni agli studi, alla presenza di presbiteri preparati nei luoghi in cui si sviluppa la cultura, si assistono malati, carcerati. Inoltre, l’ambito umano ristretto e la limitatezza degli ambiti pastorali, possono inclinare i presbiteri, che tutti si conoscono, a ritenere facilmente di saper valutare l’uno o l’altro, a lasciarsi condizionare da scontentezze, paragoni e critiche.
Nella grande diocesi il rapporto del vescovo con la gente è affidato piuttosto ai gesti, alle parole, alla funzione che egli ricopre. Di contro, acquista una propria autorevolezza il parroco, il vicario di zona; inoltre vi è, per il numero dei presbiteri, la possibilità di preparare adeguatamente quanti, per i loro doni, sono in grado di vedersi affidati ministeri che richiedono una qualche specifica competenza. Più numerose sono le mansioni e più varia è la possibilità di esprimere se stessi.
La CEI e il “Progetto”
E infine, in questa mia condizione di uno che sta uscendo di scena, vorrei dire che mi ha sempre fatto impressione la grandiosità dell’apparato della CEI. Persone, commissioni, libri, pubblicazioni, convegni. Sono proprio tutti utili o necessari? Qualche volta si ha l’impressione che tutto questo ce lo possiamo permettere per la condizione privilegiata in cui ci troviamo a seguito del discreto successo dell’otto per mille.
In particolare, desidero ricordare che mi è sembrato istruttivo il progressivo impallidire del Progetto Culturale. Era preannunciato, perché si è voluto riflettere e discutere di questioni che stanno a valle della fede. Il punto centrale è invece l’immissione nella società e nelle sue istituzioni dello spirito del Vangelo.
Prego con riconoscenza e gioia per questa Chiesa di cui sono figlio.
† Giovanni Giudici